Un Gatsby comunque Grande per Baz Luhrmann

Avevo molto timore a vedere The Great Gatsby, dopo Australia il mezzo flop che aveva seguito uno dei miei film preferiti di tutta la storia del cinema: Moulin Rouge. Avevo paura perché il trailer riverberava un tentativo di ricreare proprio quelle stesse atmosfere, quel fragore sfrigolante, pareva quasi chiedere scusa della sua precedente piatta diserzione. E che un genio come Luhrmann facesse il verso a se stesso mi intristiva, irritava.
Senza voler leggere nessuna recensione sul film, sentendone solo un’eco di vento negativa, sono andata a vederlo in versione 3D; tanto valeva – in caso – farsi del male fino in fondo.

Così è stato, in un certo senso: un film con almeno due grossi difetti; eppure, anche un grande film, comunque. Un film che fa flettere e riflettere, e che – rispetto al suo famoso predecessore diretto da Jack Clayton con protagonista Robert Redford – conserva molto più un legame visivo-emblematico con la fisicità del romanzo di Scott Fitzgerald, pur prendendosi alcune libertà sul testo; ed è molto più profondo nello scavo dei personaggi, forse anche perché, sorprendentemente, si appoggia di meno sulla fotografia e la patinatura delle immagini, lavorando più su dialoghi e recitazione.
Ma togliamoci prima di torno i difetti, che non sono pochi. Prima di tutto, è totalmente vero che questo film scimmiotti eccessivamente Moulin Rouge. L’utilizzo della musica nelle sottolineature anche di certi passaggi di montaggio è identico, così come certi movimenti di macchina, certi effetti di fast forward con blocco finale di inquadratura, come alcuni ralenti, sono copia carbone di se stessi, quasi delle autocitazioni da quanto sono evidenti, così come lo sono certi cromatismi spinti o alcune situazioni giocate sul filo dell’assurdo (forse un po’ fuori tema rispetto al romanzo) che si sarebbero potute tranquillamente tagliare. Dieci-quindici minuti in meno avrebbero credo reso questa pellicola migliore, più intensa e serrata.
Altro punto debole il 3D che, tolto qualche effetto vibrante di neve/pioggia all’inizio, e pochi altri passaggi, era invadente nella fotografia: la necessità continua (soprattutto all’inizio di ogni scena) di inserire una “quinta” nell’inquadratura per motivarne l’uso finisce per rendere molti passaggi identici, ripetitivi, stancanti.
Difficile poi comprendere la scelta di un ragazzone piatto come Tobey Maguire per un ruolo così chiave, accanto al migliore attore di Hollywood, o forse il miglior attore e basta, un Di Caprio che senza farsi neanche più accorgere di quanto è bravo riesce a dare ogni sfumatura dal bianco candito al nero inchiostro a un personaggio complesso come Jay Gatsby.
Ed è su questo che il film si riscatta dai suoi difetti e decolla: per le scene in cui, tolti gli orpelli inutili, lavora sui personaggi rendendoli molto più veri e tridimensionali dell’inutile 3D. Rispetto alla versione di Jack Clayton del 1974, sono molto più chiari e definiti i sentimenti, le aspettative e i ruoli emozionali e umani di ciascuno dei personaggi. Infatti se nella versione con Redford la protagonista femminile Daisy era resa in modo molto ambiguo e scipito da Mia Farrow, qui è finalmente chiaro che nel fallimento dell’incontro tra Jay e Daisy (Carey Mulligan, a tratti intensa) le responsabilità siano da entrambe le parti. Daisy si tira indietro perché Jay non sa accettare la realtà delle cose, non la ama per quella che lei è, vuole solo che lei aderisca a un modello che lui ha creato, pretendendo che si comporti esattamente come lui l’ha desiderata, sognata, immaginata. Un prodotto di fantasia, non una donna vera. Esige che lei dica al suo rozzo marito Tom (ben interpretato da Joel Edgerton) che non l’ha mai amato: la pone come condizione per l’inizio della loro storia, vuole “ripetere il passato” e lo ammette. Come se la sua volontà potesse essere dettare legge all’universo.
Perché, come dice Nick Carraway/Tobey Maguire “Gatsby, he had an extraordinary sense of hope”: una “speranza” che è una molla quasi ottusa, caparbia, imperiosa, in un personaggio che resta però così schizofrenico, così “potente” nella sua ricchezza mafiosa ma al contempo così infantile e fragile nella sua impossibilità ad arrendersi. La modulazione vocale di Di Caprio è veramente dosata in modo perfetto, e nonostante il doppiaggio sia molto buono, non può nel suo caso che perdere molte sfumature rispetto all’originale. Un altro motivo per preferire la versione in inglese con i sottotitoli rispetto a quella in 3D.

Tu, quore