“Tenendo la fatica con le mani” torna su carta, stavolta con Laspro

Avevo già pubblicato questo pezzo, a cui tengo moltissimo, su Il Grandevetro, più di un anno fa.

La rivista Laspro mi ha chiesto di scrivere qualcosa sullo stesso tema, ma non me la sono sentita di cercare di esprimere le stesse cose con parole diverse, e gli ho riproposto questo. Lo posto quindi ancora, ringraziando Laspro, sempre con il mio scatto peruviano che mi piace tanto ;o)

Tenendo la fatica con le mani

Il sari fucsia splende sulla sua pelle cioccolato al latte che sotto le braccia resta un po’ flaccida. È magra e il viso scavato fa pensare a sessant’anni ma impossibile esserne sicura. Denti non tutti, sorriso sghembo che copre con la mano sinistra davanti al nero lucido del mio obiettivo, ma le ho fatto l’occhietto per chiederle il permesso, prima: quindi ho scattato. Scattato in questo luogo perduto del Rajastan, a metà strada tra Jaipur e Bikaner, credo. Dove fanno mattoni.
Cammelli passano dinoccolati sulla collina in fondo, indifferenti.
La fabbrica dei mattoni assomiglia al plastico di un museo di civiltà neolitica. Solo che ci fa un caldo vero e fottuto qui, in questa fornace eretta vicino alla strada statale, e la mia donna in sari fucsia – quella a cui il mio occhietto furbo ha strappato un sorriso che forse era imbarazzo e che io ho preso come un assenso alla mia golosa ruberia della sua immagine – quei mattoni se li porta impilati sulla testa; e con le mani sollevate sopra il cranio li tiene saldi. È per via di questa posizione che il sari scivolato verso le spalle lascia vedere la pelle che scende un po’ flaccida sotto le braccia: la posizione da trasporto, da bestia da soma vestita in sari. Due uomini seduti sulla polvere fuori dalla porta di una baracca si passano un legnetto tra i denti e la guardano incedere, immobili.

Il mercato di Chichicastenango ha pochi turisti oggi. È l’inizio di novembre, pioviggina. Siamo sulla piazza dalle cinque di mattina. L’abbiamo vista seduta sui gradini della chiesa, prima, con altre donne quichè, unite e fitte; con tutto ciò che serve tenuto sotto le gonne, i capelli legati, la pelle biscotto screpolato, gli abiti rossi con fili neri, bianchi e arancione intramati. Cammina per il mercato con una sacca che le taglia la spalla a metà, un fardello si ingobba dall’altro lato. In mano regge un telo tessuto da lei che vuole vendere. Chissà quanti mesi ci ha messo, è così ampio; tesseva a casa incinta del suo bambino mentre il marito beveva liquore, all’angolo di chissà quale piazza.
L’uomo con cui sono si professa comunista ma vuole fare affari. Contratta il prezzo, orgoglioso di far finta di andar via e tornare poi per abbassarlo; anche lei lo abbassa, insieme allo sguardo. E con la mano libera dà dei colpetti al fardello sulla sua schiena, con preoccupazione. L’uomo che si professa comunista che poi ho lasciato tratta ancora e ancora, lei corrucciata sotto i sorrisi concilianti per la vendita, finché dal fardello spunta una testolina minuscola e lucida di capelli neri. È il suo minuscolo bambino e la sua preoccupazione è che lui si svegli ed esiga di essere allattato prima che lei riesca a concludere la vendita. L’uomo che si professa comunista è estasiato dal bimbo quiché, forse vuole fotografarlo, appena avrà finito di comprare il telo, a un tozzo di pane.

Morbide valli di riso disegnate verdi splendenti tra colline ripide e tonde. Al mercato vendevano anche cani da mangiare, e gatti. Nella gabbie uggiolavano; ho deciso di andare via dal villaggio, silenziosamente urlando il mio frenetico orrore. La Cina è qualche monte più a nord.
C’è un sentiero che possono fare i turisti, per queste valli abitate dalle tribù degli H’mong Fioriti. Si passa davanti alle loro case di legno elementare. Un’anziana vietnamita ha palpebre talmente oblique che è quasi difficile capire se abbia gli occhi aperti; le sclere gialle si intravedono appena, del pus le incrosta un condotto lacrimale. Forse è alta un metro e quaranta. Ci parla dall’angolo del sentiero, timida, mentre le passiamo davanti. Parla piano e incomprensibile mentre ci mette tra le mani un berretto di tela di lana nera, ricamato con fili colorati. Lo mette in mano all’uomo che si professa comunista e con i suoi palmi di cartapesta gli piega le dita sull’oggetto polveroso, a sancire che sia giusto prenderlo. Lui mi guarda come a dirmi che è bello, io gli chiedo se gli serve, la donna fa segno di cinque con le dita. Cinque non è nulla, pula nel vento. La donna minuscola parla piano la sua cantilena timida. Senza guardarci negli occhi si tocca con la mano il centro del petto, le nocche piegate dai bozzi di artrite gigante dell’acqua infiltrata a raccogliere il riso; ci fa capire che è lei che ha tessuto quel berretto, lei l’ha ricamato, minuscolo e difficile con quelle mani di carta vetrata, quegli occhi quasi ciechi. Avrà cominciato a cinque anni a tessere e cucire, ne saranno forse ottanta che lavora, questa donna. Non si è mai fermata, non si è mai chiesta, non ha mai smesso di lottare il suo riso.