Marilyn Monroe – Un piccolo monologo

[Per i 90 anni mai compiuti da Marilyn Monroe pubblico questo monologo inedito, che ho scritto con molto amore per questa donna con la quale sento un legame speciale.]

Io bambina e mia madre che urla ridendo. O ride, urlando. Non so. Rabbia o felicità, non lo so.

Mia madre era pazza, credo, finita nell’ospedale dei matti; anche io del resto, un paio di volte, forse tre. Una volta mi sono fatta venire a salvare da Joe, sia fuggiti via attraverso la cantina..
Joe DiMaggio, il mio marito pazzo, che mi ha amata credo come nessuno. Perché scegliere una donna che tutta l’America vuole portarsi a letto se sei geloso anche di un solo sguardo? È come comprarsi una torta se sei diabetico. Ma lui mi ha amata però, nel suo modo folle e contorto; cercando di soffocarmi. Anche con il suo amore.

«Tu sei mia. Tu sei di DiMaggio. Lo hai capito questo?» e poi faceva quel gesto con la mano di darmi un manrovescio. Ma l’ho tradito così poco Joe, solo se era lontano e io troppo sola. Lui e le sue rose sulla mia tomba, per vent’anni, a ogni compleanno, credo. E il mio corpo, il corpo più bramato d’America, che si disfaceva nella bara. Le mie mammelle tagliate per l’autopsia. Mi hanno dovuto riempire il reggiseno per farmi stare bene il vestito di Emilio Pucci; verde, bellissimo. Il mio viso truccato, i capelli acconciati, le viti avvitate, il buio sul mio corpo, il silenzio. Il momento più vero, quello mio. La mia solitudine.

Non mi avessero ammazzata sarei stata diversa, alla fine. Non mi avessero fatta fuori avrei smesso di fare l’attrice, di morire ogni mattina prima di andare sul set. La paura, il panico di dover recitare, ricordare il copione. Le luci addosso e tutti che ti odiano, perché hai tre ore di ritardo, di nuovo, ogni giorno, e poi non ricordi quella cazzo di battuta. Quella scena di A qualcuno piace caldo dove dovevo entrare e dire soltanto «Qualcuno ha visto il mio ukulele?» e non riuscire a dirlo, non ricordarlo, sei parole idiote che franavano dalla mia memoria, mangiata dal panico; dalle pillole per dormire e quelle per stare sveglia, da quelle per non avere panico, e quelle per non essere depressa. E gli antidolorifici per il ciclo mestruale. La tensione, la pressione. La mia intelligenza divorata che da dentro pulsa e spinge, e mi dice che tutto quello che faccio è sbagliato, che tutto quello che faccio: non sono io.

Desiderata da tutti, amata da pochi, capita da ancora meno. Psichiatri e psicanalisti con me avevano cataste di dati, esperienze, traumi, angosce. Troppa roba, ci sarebbero voluti cent’anni a mettere tutto insieme, dentro una scatola. Mettere a posto tutti i minuscoli foglietti appallottolati che avevo cercato di buttare via giorno dopo giorno; e invece recuperarli dal secchio dell’immondizia uno a uno, aprirli e provare a stirarli con il dorso della mano. Farne un pacchetto compatto e ordinato, e consegnarmelo a braccia tese con un sorriso dicendo: tieni Norma Jeane, questa è la tua vita, vedi che ci vuoi fare, adesso.
Disimparare avrei dovuto. Smettere di usarmi. Joe l’aveva capito, questo.

Il mio corpo talmente pieno di ormone femminile da ammalarsi di endometriosi. Una malattia stronza di quando sei troppo fertile e rigogliosa, di quando ti esplodono i seni e il tuo utero grida “Bambini bambini!”. Solo che il tuo utero è pazzo e si autodistrugge, e quindi non riesci a restare incinta. Rischi di morire, e alla fine il tuo corpo per salvare te ammazza il tuo bambino. O la tua bambina, non lo sai di che sesso è. Magari non ce l’ha, perché è un angelo. E rischi di morire tu e allora devi abortire. Entri lì e aspirano tutto tranne il grido “Bambini bambini!”.
Quando esci sei come un pupazzo di gomma, vuota dentro. Nessuno lo vede. Vedono solo le tue forme morbide e i tuoi seni fatti per essere succhiati, nient’altro. Non sei madre, non riesci a esserlo. Non sono madre, non sono riuscita a esserlo. Nonostante ogni ciclo fosse doloroso come un travaglio non ho partorito mai. Ho alzato il mento e dischiuso i denti in un sorriso da tre quarti, perché dovevo rassicurare tutti che stavo bene, che ero io: sana, la moglie bionda d’America; l’attaccatura dei capelli alzata con l’elettrolisi, il naso e il mento ritoccati, perfetta.

Mi guardavo nelle fotografie, mi chiedevo se ero bella davvero. Sì, ero bella, bellissima. Sapevo come usarmi, ma il senso di vuoto e di finto mi mordeva lo stomaco. Sapevo chi ero, ma lo sapevo solo io. Facevo fatica a mostrare di essere intelligente. Le persone arcuavano le sopracciglia solo a capire che non ero stupida, quasi fosse un miracolo. No, non avevo una gran cultura, no, anche se ho cercato di rimediare. Ma ero intelligente e sapevo due cose sopra a tutte: sapevo come dare il piacere del sesso, a uomini e a donne, per quanto poco ne abbia preso per me; e sapevo come far sentire la gente felice: mi piazzavo davanti alle persone e come uno specchio fatto di raggi di sole gli rimandavo la loro migliore immagine di sé. Ero come una droga, per un po’. Poi però la gente si stufa, non vuole sapere di potenziale sprecato: vuole restare pigra nella propria vita di merda, non vuole che tu li faccia sentire che potrebbero essere più di ciò che sono. Troppa fatica il carico di andare oltre se stessi.

E anche sulla politica avevo un sacco di idee che nessuno era interessato a sentire. Invece che dire di Cuba ho parlato della solidarietà tra gli esseri umani: il massimo che la Nazione Americana riuscisse emotivamente a tollerare. Mi sono salvata appena dal maccartismo, e ho imparato a esprimere le mie idee solo con i veri amici.
I discorsi del Presidente però mi davano i brividi; è per quello che è iniziata tra noi. Famiglia malata, la sua. Pericolosa. Mi sarei salvata se fossi stata una donna stupida. Avrei fluttuato in una vacuità ebete e rassicurante, con il mio seno endometriosico e lo sguardo miope sarei stata la Fidanzata d’America fino alla successiva. Che però non ci fu.
No, non c’è stata nessun’altra come Marilyn Monroe. Non lo dico con alterigia, con orgoglio. Non c’è stata perché è difficile che ci sia nella stessa carne tutto questo sesso e questa morte.
Solo nel candore del mio utero il grido “Bambini bambini!” ma prima “Mamma mamma!”. Mamma la pazza.

La poesia e lo spirito