“La frattura”, l’unico prezioso romanzo di Giovanna De Angelis

“Finalmente” ho pensato quando ho avuto qualche mese fa la bozza del romanzo di Giovanna De Angelis. “Per fortuna”, ho aggiunto.
Ero certa che avendo saputo sempre trovare parole così giuste per gli altri, ne avrebbe avute anche per sé, per (con) quel suo mondo turbolento e appassionato dentro, a volte grumoso, rabbioso, e anche libero, retto, ironico, smascherante. Tutti i re erano sempre nudi per Giovanna, nessun ossequio, solo Veritas; quella che ho trovato qui.

Mi aspettavo un buon romanzo, qualcosa che avrei letto con occhi velati e indulgenza, con una dolcezza che l’avrebbe probabilmente irritata. Questa idea è durata un soffio, neanche un paio di pagine. È finita perché “La frattura” è Letteratura, non altro.
Lo è per lo spazio largo di ogni personaggio, delineato come un piano sequenza filmico, coerente e sfaccettato, debole e forte, umano, reale; per una storia veritiera che rende così vicine le nostre ansie interiori, rivelando quanto ognuno di noi stia dentro se stesso con in mano un termometro della felicità sentimentale così fragile, e che faccia dipendere da quel grado la sua capacità di sopportare o meno il proprio vivere, persino il proprio morire.

La protagonista di questa storia non è l’alter ego di Giovanna De Angelis ma ha certamente il suo sguardo sulle cose, la capacità di notare dettagli in modo disincantato eppure sentimentale. In questo periodo si parla molto dell’abilità di Sorrentino nel descrivere Roma ne “La grande bellezza”. Non dico che non esista quella Roma, ma io non la conosco; non la frequento, non mi interessa. Roma per me è quella delle strade di Giovanna, quelle atmosfere quotidiane dei baretti, dei palazzi intorno a piazza Farnese, degli esercenti svogliati, degli infermieri sgraziati e insensibili. Il mondo in cui la protagonista si muove è narrato in soggettiva, vediamo tutto con lei. Personaggi minori restano nell’inquadratura, ce li mostra, ognuno nella sua privata fatica quotidiana, tridimensionali ed estranei alla trama, nelle infinite possibilità di ciascuna esistenza e con la propria battaglia da vincere. La “ragazza dalla magrezza sgraziata” o la “neonata imbottita nella tuta color fragola”. Personaggi che la cinepresa di Giovanna De Angelis non tenta di escludere dall’inquadratura, ma tiene al contrario come quinta scenica del progredire del racconto; una capacità che molti scrittori dovrebbero allenare.

Ma credo che ciò che rende questo romanzo Letteratura più di ogni cosa sia proprio la sostanza del materiale con cui è costruito: la lingua, che sostiene con vigore quasi a sé stante qualsiasi invenzione o idea. Spesso si abusa nella critica letteraria dell’aggettivo “chirurgico” per definire l’abilità cesellante dei certi scrittori, e usarlo per definire la prosa di De Angelis mi parrebbe reato di banalità. Preferisco spiegarlo in un altro modo, descrivendo la mia sensazione di lettrice: parole e frasi sono adagiate con la stessa cura con cui una donna poggerebbe sul letto la sua biancheria per sceglierla prima di infilarla in valigia, alla partenza del suo viaggio di nozze. E ogni colore non è mai grezzo, ma la tonalità del proprio equivalente botanico, come nature morte di fiori e frutta: precise ed eterne.

 

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