Ceci n’est pas un compte-rendu [Questa non è una recensione] – Un pezzo per Nazione Indiana

Una non-recensione, una sorta di pezzo non-narrativo che ho scritto per Nazione Indiana.

Ceci n’est pas un compte-rendu [Questa non è una recensione]

Roma, parco di Villa Ada, aprile finisce domenicale cedendo infine alla primavera.
Nei viali e sui prati, una coppia di amiche rumene di mezza età con caviglie virili e varicose parlano fitte sbocconcellando panini e il vino dal cartone, rannicchiate sopra un plaid tartan sull’ocra con orli sfilacciati, le dita dei piedi compresse dai gambaletti color carne.

Due colleghi di lavoro hanno usato la scusa del jogging per vedersi finalmente da soli, fuori dall’ufficio, senza far destare sospetti alle famiglie. Lei ha solo cambiato la “a” di collega in una “i” di colleghi, quando ha avvertito il marito; lui invece ha omessa la “a”, quando ha detto a sua moglie: «vado a correre con un[a] collega». Due “a” omesse, privative di una verità che a entrambi pare ancora innocente, quasi sincera. Tra poco non basterà più quel versarsi addosso il fiume di parole di oggi: vorranno toccarsi, e poi sposarsi. Uno dei due lascerà il proprio coniuge, l’altro no, perché i bambini sono troppo piccoli, e non se l’è sentita, e il dolore si mangerà tutto, alberi compresi, e pure questo vento di primavera meraviglioso.

Una famigliola francese ha noleggiato le bici. La madre pedala silenziosa mentre il padre sta sgridando la figlia quindicenne che urla che è stanca e stufa e che lei non aveva nessuna intenzione di passare con loro la domenica per di più in bicicletta, due vecchi noiosi, no di più: schifosi, ecco. Due genitori schifosi, per quanto francesi e forse diplomatici, lei così ben vestita anche in tuta, lui con un taglio di splendente eleganza per i suoi capelli grigio ferro.

Una coppia gay italiana incrocia e sorride a una coppia gay spagnola, sopra i cinquanta, sovrappeso e gesticolante; ridanciani alzano la voce che non inciampa mai sulle esse sdrucciole e velocissime, le aspirate e le “b” mosce a labbra tumide, sempre gesticolando e ridendo, nel parco che li accoglie con la sua eleganza mediterranea così familiare per loro, da capitale sorniona e un po’ blasè.

Una numerosa famiglia filippina espressa in quattro generazioni porta pesanti fardelli di cibo, bevande e attrezzatura da picnic. La donna centrale, sui cinquanta, modula acuti tonali che rastrella con consonanti occlusive. È evidente che stia impartendo ordini che nessuno pare voler contestare. Due degli uomini sorreggono con fatica le estremità della bianca e angolosa barra della borsa frigo muovendo passi piccoli e ravvicinati, a occhi socchiusi. L’ingresso più vicino a quel punto del parco dista già almeno quattrocento metri, avranno i polpastrelli viola e indolenziti. Ma la donna centrale li incalza, seria e pietrosa.

Queste le narrazioni gratuite offerte in sessanta minuti di passeggiata per un parco romano, un qualsiasi giorno di sole. Eppure no. Lo scrittore nella rosa dei candidati al premio letterario prestigioso ha voluto raccontare di nuovo la stessa storia maschile di sempre, quella della donna tormentata e autolesionista del sesso, la vorace e insaziabile ninfomane che si fa male pur di provare piacere, senza neanche l’attenuante del candore vontrieriano, senza onde né destino, senz’altra parte che non quella dell’ossessione del protagonista del romanzo, adolescente a qualsiasi età, ombroso testardo e stolido, con la prostituta che lo sceglie nel bordello perché lo desidera: lui, pensa!, perché è tanto sensibile, e lei lo capisce. Certo.

Ho abbandonato a metà.
Se davvero esistono donne così, se non nella fantasia di questi uomini, e se queste donne fragili come papaveri sono fuori da un programma di riabilitazione psichiatrica, allora portatemele qui, presto, che voglio abbracciarle e accudirle; portatemele tutte.

 

 

[Grazie a Giulia Colavolpe per la traduzione]