Abitare la tortura

Questo pezzo è uscito con qualche modifica sull’Unità del 24 marzo 2005, anniversario della strage delle Fosse Ardeatine; ci tengo molto anche perché mi ha dato modo di conoscere una persona unica e speciale: Elvira Palladini. Ho pianto sinceramente la sua morte, dopo aver amato la sua vita e il suo esempio. Sono stata sorpresa e lusingata che sia stato anche ripreso sul sito dell’Arcigay di Milano, porto questo come una medaglia (grazie!!!).

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ABITARE LA TORTURA

Celle di detenzione e tortura nazista di via Tasso ancora abitate da privati

Via Tasso sale da Manzoni e sembra infrangersi contro una muraglia, altissima. Viene da alzare gli occhi e cercare il cielo, che oggi è di un azzurro sfacciato. Quando arrivo al portone del Museo Storico della Liberazione di Roma dalla finestra del palazzo di fronte una radio suona “Disco inferno” e mi raggela.
Questa quieta palazzina borghese anni ’20 era della famiglia Ruspoli, che la affitta all’ambasciata tedesca. Dal ’43 fino al giugno del ’44 diventa il Quartier Generale della Gestapo: è qui che Kappler il 28 settembre prende i 50 chili di oro dagli ebrei di Roma. Di fatto, glieli ruba.
È in questo edificio che le SS attrezzano il carcere in cui rinchiudono e torturano partigiani, comunisti, ebrei, omosessuali, anarchici, sindacalisti e persino sacerdoti. Uomini a volte eroici e impavidi, ma più spesso terrorizzati e stremati, ammassati in sei-sette in minuscole celle ricavate da camerette con le finestre murate, senza aria e quasi senza luce, continuamente picchiati e torturati, infine giustiziati, alcuni alle Fosse Ardeatine.
In quei mesi in cui via Tasso era un carcere, di notte si sentivano urla di dolore fino in strada, urla di chi non è quasi più cosciente di urlare, perché la tortura è così: ti porta fuori di te, oltre quello che riesci a sopportare, e continua ad andare oltre, un pezzetto alla volta. Così mentre crolli scrivi sul muro, cerchi di lasciare un segno, qualcosa che ti restituisca la tua immagine mentre pensi di stare cercando di restituirla ad altri. Le celle di via Tasso sono piene di scritte, parole dei reclusi o quelle di altri: Dante, classici greci e latini, la Bibbia. Quando ci entri il silenzio ti pulsa nell’orecchio, e ti prende un risucchio di vertigine tra pareti ancora gonfie di angoscia. Se la sai sentire, se te la lasci colare addosso.
Altrimenti no. Altrimenti, negli anni ’50, quando la famiglia Ruspoli decide di donare quattro appartamenti allo stato italiano perché ne faccia museo mettendone in vendita i restanti otto, se volevi, potevi comprartene uno, per abitarci. Tranquillo, come prendersi un residence a Dachau.
Con la fame che c’era dopo la guerra i nuovi proprietari non avranno avuto difficoltà a trovare operai che grattassero quei muri, che togliessero i mattoni mal impilati dai vani delle finestre, che buttassero calce viva alle pareti e picconassero i pavimenti per cancellare ogni traccia dello sporco di prigionieri che uscivano solo una volta al giorno per andare in bagno, dieci metri di corridoio avanti e indietro e poi di nuovo sotto chiave, dentro le mura.
Chissà cosa pensano i privati che abitano a via Tasso. Quelli che comprarono casa negli anni ‘50 e quelli che la comprarono dopo, quando l’orrore nazista era ancora più gonfio perché si sapeva ormai quasi tutto su quello che continuiamo per errore a chiamare Olocausto invece di Shoah. Ci si abitua a tutto? Elvira Paladini, strabiliante direttrice del museo dove suo marito partigiano è stato tenuto prigioniero, salvandosi poi per pura fortuna, ci fa credere che sì, ci si abitua anche a questo, se alla fine degli anni ’80 gli inquilini avevano anche tentato di far chiudere il museo, e se ancora oggi, ci racconta, danno divieto di apertura serale, si lamentano del rumore delle scolaresche per le scale, del viavai, dello sporco. Agli inquilini il museo dà fastidio. Evidentemente per loro abitare lì va benissimo.
Chissà cosa si troverebbe ancora nelle loro abitazioni, grattando sotto gli intonaci: magari altre parole, altre grida. Per il momento, tutto tace. Elvira Paladini ci dice che un appartamento è stato finalmente acquistato nel 2000 con il denaro raccolto da vari enti statali, tra cui ovviamente il Ministero dei Beni Culturali, e il comune di Roma. È stato trasformato in un piccolo “museo nel museo” per allestire un’area dedicata alla Shoah, ma rimangono ancora tanti appartamenti da espugnare. L’unica consolazione è sapere che ormai su via Tasso c’è un solido vincolo posto in tempi recenti dai Beni Culturali: vietato picconare su pezzi della nostra memoria.