“A Neopoli nisciuno è neo” di L. R. Carrino

Napoli l’ho scoperta da poco, affettivamente; non avendola concettualmente mai visitata o saputa prima, in due brevi visite l’ho trovata tutta diversa e tutta uguale a quella che pensavo, e ci ho cucito dentro quel sentimento che ti strappa per forza, se hai occhi sentimentali sulla bellezza. Chissà che effetto mi avrebbe fatto questa lettura, altrimenti, questa galoppata di nomi, situazioni, quartieri strade, alti e basci, questa puzza e questo profumo, queste speranze tritate che spremute hanno più succo di quello che il concetto di “neomelodico” riesce a esprimere mai.
Premetto che non amo il genere, e non lo amerò mai, perché sulla musica ho gusti totalmente diversi, ma è stato interessante capire cose c’è/c’era dietro, quante contraddizioni, per chi le vede tali non conoscendone i meccanismi, e quanto fluido senso invece contenga il mondo che questa musica esprime, così ancorata alla sua realtà da essere folcloristica nel senso più profondo del termine, ché “popolare” è più ambiguo.
Questo testo, scritto da Carrino con l’aiuto di Ettore Petraroli, esce dalla sua ottima penna come una lunga narrazione di persone, più che di personaggi: ognuno di loro ha poco del divo, è legato al luogo dove canta come avesse delle radici, ogni quartiere le sue ugole, come una spartizione, e il tributo dell’umiltà, il tributo ai fans, tutti o quasi lo devono e vogliono pagare, anche se non dà ricchezza ma spesso chi canta lo fa a feste private, più che a concerti, e spesso guadagna poco, a volte niente, sull’ingaggio.

Cantare sembra davvero più una questione di vocazione che di soldi, di prestigio, di fierezza, di affermazione, di legame con la terra e la propria vita/famiglia, obbedienti a un comando di sentimento.

Carrino, cosa ti ha portato a scrivere questo libro e cosa ti affascina di più di questo mondo?
Non era mia intenzione. È stata un’idea che mi ha suggerito Giuseppe Antonelli, consulente per la collana Contromano di Laterza. Conosco questo mondo, per ovvie ragioni. A me, tuttavia, non basta mettermi soltanto dietro un computer e scrivere. Ho bisogno di sporcarmi le mani. Ettore Petraroli è un mio amico da vent’anni, uno che di queste cose ne sa molto più di me, che lavora anche con i neomelodici. Ho quindi poco a poco penetrato questo universo grazie al suo aiuto.
Ho fatto l’autore di trasmissioni come Le invasioni melodiche, ho scritto anche canzoni (per Ida Rendano; il testo prende a prestito la giornata del suo matrimonio, dove sono stato testimone di nozze insieme a Ettore, per raccontare tutte le nuances di questo mondo), ho intervistato un sacco di cantanti, impresari, accompagnatori, road manager. Un anno di lavoro (qualcuno mi ha detto che è stato un impegno eccessivo…) per raccontare la mia città attraverso questo prisma musicale che, a nostro avviso, oggi  rappresenta Napoli e la sua gente molto più di quanto faccia la cosiddetta musica “colta”.

Sarebbe stato bello fare un documentario di queste “storie”, ci hai pensato, con il tuo animo drammaturgico?
Sì, a dire la verità ci abbiamo pensato. Non solamente io e Ettore. Anche con Fabiomassimo Lozzi c'era una mezza idea. Vedremo. L'idea era quella di raccontare l'altra parte della città, dal punto di vista musicale ma non solo, raccontata in Passione di Turturro.
Sai, una delle cose che il testo mio e di Ettore smonta, è la italiana idea che questa sia musica prodotta dalla camorra, comunque ascoltata da gente malamente, di un certo sottoproletariato.
Le sorprese sono tante. Molte. Anche per noi che in questa città ci siamo nati.

E adesso torni a un romanzo?
In questi giorni ho finito Il Pallonaro, una storia d’amore e omertà ambientata nell’ambiente del calcio. Speriamo bene.

La poesia e lo spirito, Slowcult